IL VEGANISMO SPIEGATO A BABBO NATALE – Aperiquiz e Tombolata

Nella sera del 18 dicembre, un evento imperdibile accade a Torino: Transelvatikə si riunisce insieme al fronte liberazione renne e al sindacato per i diritti degli elfi lavoratori per l’evento che tuttə stavate aspettando… Il veganismo spiegato a Babbo Natale!
Vi scalderemo con una zuppa prima di iniziare a congiurare contro Santa Claus e, tra un vin brulé e l’altro, libereremo i cuccioli di Grinch dentro di noi.
Quizzettone con tanti premi! Vincerà chi saprà rispondere a domande quali: è nato prima l’uovo o la gallina?
Concluderemo la serata con la tombolona transelvatika, praticamente lo squid game de noantrə.
Informazioni pratiche:
Il menù è in via di definizione, ma promettiamo opzioni senza glutine per lə intolleranti. Se hai altre necessità alimentari comunicacelo, ma tieni conto che non disponiamo di una cucina professionale e quindi non possiamo garantire l’assenza di contaminazioni.
Quanto costa? Tanto per chi ha tanto e poco per chi ha poco. Ognunә può contribuire a sostenere le attività del Collettivo Antispecista Transelvatikә secondo le proprie disponibilità. Offerta consigliata: 5 euro.
Per evitare sprechi alimentari e per permetterci di organizzarci al meglio, è graditissima la prenotazione entro giovedì 16 dicembre! Ci si può prenotare scrivendoci sui social o via mail all’indirizzo transelvatik@bruttocarattere.org, lasciando un nome e un recapito telefonico.
Vi aspettiamo sabato 18 dicembre dalle 18.30 allo Spazio Popolare Neruda (corso Ciriè 7, Torino)

Cani liberi, decoro urbano e autonomia di specie

Il 16 ottobre abbiamo proiettato il documentario No Pet. Liberi e randagi (2018) di Davide Majocchi. Il documentario propone una lettura critica della cosiddetta “lotta al randagismo”, mettendo in discussione la visione antropocentrica sempre più diffusa in Occidente secondo cui ogni cane libero è un cane che deve essere accalappiato, sterilizzato e destinato a un’esistenza chiuso in un box del canile o nella gabbia dorata della nostra casa. Quest’ultima è senza dubbio la migliore delle ipotesi, ma sappiamo bene che molti di questi cani non trovano mai un’adozione e sono destinati a trascorrere tutto il resto della loro vita in canile.

Abbiamo deciso di proiettare questo documentario perché spesso, anche all’interno dell’attivismo animalista/antispecista, il cane è presentato come animale che “trattiamo bene”, in opposizione allo sfruttamento degli animali da allevamento. Il documentario ci spinge però a domandarci che cosa vuol dire “trattare bene” i cani.

Partiamo da una premessa: nel mondo sono presenti circa 900 milioni di cani, di cui l’83% è costituito da cani liberi, che gravitano intorno alle comunità umane senza condividere con gli animali umani gli spazi domestici [1]. Dunque, l’idea che i cani stiano bene solo all’interno delle abitazioni umane pare essere un’idea etnocentrica oltre che antropocentrica, limitata al nostro spicchio di mondo. Inoltre, il rapporto che la nostra società ha con i cani è sempre concepito all’interno di un’ottica utilitaristica, in cui il cane ci è utile per qualche motivo: dal tenerci compagnia al fare la guardia, a partecipare a competizioni, al contribuire alla costruzione del nostro status sociale sfoggiando il “cane di razza”, fino a svolgere veri e propri servizi professionali, come per i cani poliziotto, o i cani usati per il salvataggio, o i cani da pastore e da caccia, ma anche i cani usati per la pet therapy. Il rapporto della specie umana con i cani è sempre concepito in ottica di dominio: è sempre l’umano a dover “educare” il cane e a dover decidere per la sua vita limitando, di fatto, al minimo le possibilità di scelta.

L’istituzionalizzazione della lotta al randagismo in Italia inizia tra fine ‘800 e inizio ‘900, quando si fa strada la necessità di riforma della sanità pubblica e i cani liberi vengono individuati come minaccia per la salute pubblica. Precisamente, nel 1914 viene introdotto un articolo all’interno del Regolamento Speciale di Polizia Veterinaria che obbliga la registrazione presso gli uffici comunali di tutti i cani che vivono con un_ uman_ e prescrive l’obbligo di accalappiamento dei cani vaganti, i quali erano destinati alla soppressione o alla concessione a istituti scientifici se non venivano reclamati da nessun proprietari_ [2]. Il canile vero e proprio nasce nel 1954 proprio per contenere i cani accalappiati. Soltanto nel 1991, con il diffondersi del pensiero animalista e protezionista e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie nascono i canili rifugio, dove i cani possono essere messi a disposizione per le adozioni [2]. Se da una parte la nascita dei canili rifugio salva i cani dalla morte certa, dall’altra costringe quelli che non hanno caratteristiche di adottabilità a una vita dietro le sbarre.

Nel documentario si parla anche di “senso di protezione che limita”, tracciando un parallelismo con la lotta antipsichiatrica: spesso proiettiamo su altri soggetti la nostra specifica idea di benessere che potrebbe però non coincidere con la loro. Moss_ dall’impeto di voler “tenere al sicuro” o “salvare” altri soggetti spesso ne limitiamo la libertà senza chiederci se altri tipi di negoziazioni potrebbero essere possibili.

A noi pare che questo discorso possa essere inserito anche nella cornice più ampia di critica alle politiche del decoro e all’approccio securitario. Per questo motivo abbiamo invitato come ospite per l’introduzione del dibattito Lucilla Barchetta, ricercatrice e autrice del libro La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino [3], dedicato alla ricerca etnografica svolta prevalentemente in due parchi torinesi: il parco Michelotti e il parco Stura. L’autrice, accanto a un’ampia riflessione sui progetti di “addomesticamento” del verde urbano, parla di come la regolamentazione e il controllo sullo spazio pubblico e privato limitino le opportunità di muoversi in città soprattutto per i soggetti più vulnerabili. Concetti come quelli di “decoro urbano” e “degrado” sono declinazioni dell’ideologia securitaria diventati pervasivi nella nostra società e vengono usati per mantenere l’ordine sociale, con ripercussioni sui soggetti più marginalizzati.

Il discorso è vasto e sfaccettato, nel caso dei cani liberi va certamente fatta una distinzione tra almeno tre tipi diversi di cani:

  • i cani ferali o semiselvatici, che sono nati liberi e non sono socializzati con la specie umana;
  • i cani che hanno vissuto con l’umano ma si sono successivamente trovati in strada e hanno sviluppato le competenze necessarie per vivere liberi;
  • i cani abbandonati o persi che non hanno, invece, le competenze per vivere liberi [4].

È chiaro che, nelle condizioni attuali in contesti fortemente antropocentrici, questi ultimi cani necessitano di una gestione umana se si vuole evitare la loro morte. Tuttavia, anche nel caso di cani che possono sopravvivere solo a contatto con la specie umana, l’invito è a considerare l’etologia del cane e a lasciare spazio per la sua autonomia, ponendosi in controtendenza rispetto alla cinofilia moderna che insegna al cane a non prendere iniziative e a delegare tutte le scelte all’umano [5].

Per il momento noi non abbiamo risposte certe, ma accogliamo l’invito di No Pet a interrogarci sul nostro rapporto con i cani e a rispettare i soggetti che rivendicano la loro indipendenza dalla specie umana e la loro autonomia di specie.

Fonti:

[1] Marini C. (2021), “Non è tuo figlio”, Menelique, 6:21-23.

[2] Troglodita Tribe, Chiudiamo i canili!, autoproduzione.

[3] Barchetta L. (2021), La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino, Agenzia X, Milano.

[4] Troglodita Tribe, Cari cani di Sicilia, autoproduzione.

[5] Papa V. (2021), “L’autonomia potenziale del cane”, Menelique, 6: 25-27.

Inky, una recensione

Adorno, in Minima Moralia, afferma che «L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile». Sono convinta che per portare avanti le lotte che ci stanno a cuore, questo non basti. […] il dissimile presuppone sempre una distinzione, un’identificazione. Forse è giunto il tempo di guardarsi allo specchio, e smettere di riconoscersi. (Feminoska[1])

 

Nella notte tra il 11 e il 12 aprile, il polpo Inky scappava dall’acquario che per due anni lo aveva recluso. Sollevando il coperchio della sua gabbia di vetro, percorrendo il pavimento e infilandosi in un tubo di scarico lungo 50 metri, Inky raggiungeva le acque della baia di Hawke, in Nuova Zelanda, libero.

Quella di Inky è stata una fuga rocambolesca, che i media hanno esaltato e spettacolarizzato rendendola un siparietto divertente, un evento eccezionale o un curioso aneddoto su un animale più astuto degli altri.

La fuga di Inky, invece, non è poi così straordinaria: tutta la storia dell’oppressione animale si basa sul contenimento delle azioni di resistenza ed evasione. I recinti, i gioghi, le briglie, il morso, le pratiche di mutilazione quali la rimozione delle corna dei bovini, delle zanne dei maiali e la sterilizzazione degli individui più aggressivi e infine la selezione genetica sono testimonianze storiche del fatto che gli animali non siano mai stati complici inermi dei loro sfruttatori quanto piuttosto siano individui che lottano e che hanno sempre lottato.

Il libro Inky di Stefania Valenti, a.k.a C’era una Ri-Volta, ci restituisce la normalità degli animali che si ribellano e lo fa già dalla sua copertina. Inky è un polpo comune e questa sua normalità è una parte integrante e fondamentale del suo corpo illustrato: non ci sono occhioni in cui specchiarsi, ma due occhi grandi e pieni, non ci sono bocche che ci sorridono perché Inky ha la bocca al centro dei tentacoli (e quindi noi non possiamo vederla!) e c’è una strana protuberanza giallo-arancione vicino la testa, il sifone.

E Stefania (che chiamiamo per nome perché la conosciamo e non con quell’operazione che invisibilizza i cognomi delle donne!) in tutto il libro continua a raccontarci che Inky è diverso da noi, attingendo anche al suo bagaglio di studi naturalistici: sono tre i cuori di Inky che battono all’impazzata durante la sua lotta con il pescatore che lo avrebbe poi catturato e sono l’assenza di ossa e quella capacità peculiare dei polpi di cambiar forma e dimensione che hanno reso possibile la sua fuga. Ma Stefania, soprattutto, ci dice che la storia di Inky è una storia vera e questo ci fa sperare che quando lə bambinə metteranno in pratica quell’inevitabile processo di identificazione con il protagonista del libro, lo faranno sapendo inconsciamente che non vi è alcuna simbologia: la storia di Inky non parla di loro, ma parla soprattutto di Inky, che Inky non è speciale e che le sue caratteristiche, dai tre cuori all’anelito per la libertà, sono comuni a tutti i polpi.

E se a molti la storia di Inky ha ricordato il film per bambinə Alla ricerca di Nemo, in realtà il libro Inky e il film della Pixar sono quantomai distanti. Dietro le avventure di Nemo (un pesciolino che va a scuola, tra l’altro), vi è un viaggio per conquistare la fiducia e l’autonomia da un padre iperprotettivo, oltre alla solita morale (neoliberale) per la quale la perseveranza di fronte alle avversità è una garanzia di successo. Inky, invece, non ha messaggi nascosti: è solo la storia di un polpo comune e di un’ancor più comune lotta per la libertà.

[1] Feminoska, 2021, Lo sguardo neutrale non esiste. Antispecismo e intersezionalità. Verso una politica delle alleanze. In M. Reggio e N. Bertuzzi (a cura di), Smontare la gabbia, Mimesis Edizioni, Milano.