Finché ogni gabbia non sarà vuota

In quanto collettivo antispecista che si sta interrogando sui punti di contatto tra il punitivismo e la reclusione delle persone non umane, tra il sistema carcerario per uman* e lo specismo, vogliamo cogliere l’occasione per sottolineare che per noi il carcere per chi ingabbia, cattura e reifica gli animali non umani non potrà mai essere una soluzione.
Lo facciamo citando qui un articolo comparso su writing liberation:
Le somiglianze fisiche tra i sistemi di prigionia (per uman* e non uman*) sono in qualche modo ovvie. Alti recinti sormontati da filo spinato, cancelli chiusi con catene e lucchetti, individui confinati in celle (gabbie) singole o di gruppo a seconda dello status o della funzione attribuita: sono elementi osservabili sia nelle prigioni umane che in quelle per non-uman*, siano esse allevamenti di maiali o laboratori di vivisezione (o strutture di detenzione come Casteller). I metodi di trasporto utilizzati per trasferire prigionier* uman* e non-uman* hanno anch’essi somiglianze, con veicoli chiusi e compartimentati, col minimo spazio e sicurezza necessari alla consegna dell’individuo al tribunale o al macello per essere “processat*”.
Qualcun* potrebbe dire che qui finiscono le analogie, sia fisiche che ideologiche, dato che gli animali non-umani non commettono crimini che “meritano” incarcerazione e macellazione, o dato che le carceri umane come sistema punitivo giocano un ruolo vitale nel mantenimento dell’ordine sociale e dovrebbero continuare a farlo (un ordine dettato da legislatori e rafforzato dai loro impiegati, la polizia e le guardie carcerarie). Ad ogni modo il sistema carcerario è uno strumento intrinsecamente politico, usato per sopprimere il dissenso, per contenere la cosiddetta devianza sociale, e per stipare efficacemente gli individui che si ritiene non abbiano posto nella società. Come afferma Angela Y. Davis: “il carcere è divenuto un buco nero in cui vengono depositati tutti i detriti della società capitalista contemporanea” (Angela Y. Davis “Aboliamo le prigioni?” 2003). Molte persone si ritrovano incarcerate non perché siano intrinsecamente meritevoli di una cella, ma a causa di una serie di circostanze politiche, ideologiche e socio-economiche che rende loro impraticabile la partecipazione all’interno del moderno sistema di input/consumo-output/produzione che costituisce la base di una società capitalista. 
L'”alterizzazione” dell* prigionier* (la separazione fisica e ideologica delle persone marginalizzate dalla società tradizionalmente intesa) come mezzo per giustificare non solo la loro incarcerazione ma anche lo sfruttamento del loro lavoro è diventato un aspetto così normalizzato della nostra società che la comunità allargata fatica a riconoscere la funzione di controllo sociale del sistema carcerario, vedendola invece come normale, naturale e necessaria, fino ad escluderne qualsiasi alternativa.
Questo stesso argomento viene applicato allo sfruttamento continuato di animali non-umani, basato su un ordine percepito come “naturale”, plasmato dal capitalismo a tal punto da alterizzare esseri senzienti, da trasformare individui in entità simili a macchine, la cui primaria funzione è quella di un’unità di produzione. Proprio come lo stato esercita diritti di proprietà sull* uman* imprigionat* mentre mercifica la loro incarcerazione, così anche gli animali non-umani sono resi proprietà dell’industria sponsorizzata dallo stato, e la produttività (o riproduzione) dei loro corpi viene mercificata all’interno della gabbia.
La collocazione fisica della gabbia è di primaria importanza, non solo per rimuovere l’individuo incarcerato (umano o non-umano) dalla società ma, forse ancora più importante, per “rimuovere dalla vista, dalla responsabilità, la violenza che è intrinseca al suo funzionamento” (Wadiwel). I muri, i lucchetti, le gabbie e la separazione dalle aree urbane, osservabili sia nelle carceri umane che non-umane, non sono analogie semplicemente fisiche; sono meccanismi strategici deliberatamente applicati per occultare la violenza inflitta a coloro che sono dentro dalla vista della comunità, e per assolvere quella comunità dalla responsabilità per coloro che sono incarcerat* al suo interno. Certo, ci sono differenze evidenti tra prigioni umane e non-umane. Un esempio, la maggioranza dell* prigioner* uman* alla fine lascia la propria gabbia fisica da viv* (anche se si potrebbe obiettare che i processi di istituzionalizzazione e di esclusione sociale continuativa rappresentano una gabbia psicologia e fisica con cui molt* ex-prigionier* dovranno fare i conti a lungo). Ad ogni modo, come afferma Steven Best “l’argomento non è se le esperienze e le forme di oppressione umane e non-umane sono identiche o che non ci sono differenze rilevanti da delineare, ma piuttosto che le somiglianze sono più importanti delle differenze”. 
Inoltre, come strumento usato nella soppressione del dissenso politico, il sistema carcerario è fondamentalmente un ostacolo alla realizzazione della liberazione animale non-umana, attraverso la persecuzione e incarcerazione di quegli individui che escono dalla legge nel perseguire la giustizia. Supportare la continuazione del sistema carcerario significa supportare una macchina che lavora in diretta opposizione degli ideali fondamentali della liberazione stessa.
Quando diciamo “finché ogni gabbia non sarà vuota” dobbiamo intendere la sua logica conclusione. Non puramente come retorica di liberare gli animali non-umani dalle loro prigioni, ma come dedizione allo smantellamento del sistema carcerario, fondamentalmente ingiusto, che impedisce la realizzazione della liberazione. È di centrale importanza che riconosciamo le disuguaglianze sociali che sono volutamente costruite dallo stato, dall’industria e dalle aziende multinazionali, in quanto mezzi per continuare a nutrire il sistema carcerario, e comprendere come il sistema carcerario plasmi le nostre relazioni con gli animali non-umani. E finché non decostruiremo il sistema e le carceri che imprigionano animali umani e non-umani, comprese le prigioni nella nostra testa, la liberazione continuerà a sfuggirci.

Cani liberi, decoro urbano e autonomia di specie

Il 16 ottobre abbiamo proiettato il documentario No Pet. Liberi e randagi (2018) di Davide Majocchi. Il documentario propone una lettura critica della cosiddetta “lotta al randagismo”, mettendo in discussione la visione antropocentrica sempre più diffusa in Occidente secondo cui ogni cane libero è un cane che deve essere accalappiato, sterilizzato e destinato a un’esistenza chiuso in un box del canile o nella gabbia dorata della nostra casa. Quest’ultima è senza dubbio la migliore delle ipotesi, ma sappiamo bene che molti di questi cani non trovano mai un’adozione e sono destinati a trascorrere tutto il resto della loro vita in canile.

Abbiamo deciso di proiettare questo documentario perché spesso, anche all’interno dell’attivismo animalista/antispecista, il cane è presentato come animale che “trattiamo bene”, in opposizione allo sfruttamento degli animali da allevamento. Il documentario ci spinge però a domandarci che cosa vuol dire “trattare bene” i cani.

Partiamo da una premessa: nel mondo sono presenti circa 900 milioni di cani, di cui l’83% è costituito da cani liberi, che gravitano intorno alle comunità umane senza condividere con gli animali umani gli spazi domestici [1]. Dunque, l’idea che i cani stiano bene solo all’interno delle abitazioni umane pare essere un’idea etnocentrica oltre che antropocentrica, limitata al nostro spicchio di mondo. Inoltre, il rapporto che la nostra società ha con i cani è sempre concepito all’interno di un’ottica utilitaristica, in cui il cane ci è utile per qualche motivo: dal tenerci compagnia al fare la guardia, a partecipare a competizioni, al contribuire alla costruzione del nostro status sociale sfoggiando il “cane di razza”, fino a svolgere veri e propri servizi professionali, come per i cani poliziotto, o i cani usati per il salvataggio, o i cani da pastore e da caccia, ma anche i cani usati per la pet therapy. Il rapporto della specie umana con i cani è sempre concepito in ottica di dominio: è sempre l’umano a dover “educare” il cane e a dover decidere per la sua vita limitando, di fatto, al minimo le possibilità di scelta.

L’istituzionalizzazione della lotta al randagismo in Italia inizia tra fine ‘800 e inizio ‘900, quando si fa strada la necessità di riforma della sanità pubblica e i cani liberi vengono individuati come minaccia per la salute pubblica. Precisamente, nel 1914 viene introdotto un articolo all’interno del Regolamento Speciale di Polizia Veterinaria che obbliga la registrazione presso gli uffici comunali di tutti i cani che vivono con un_ uman_ e prescrive l’obbligo di accalappiamento dei cani vaganti, i quali erano destinati alla soppressione o alla concessione a istituti scientifici se non venivano reclamati da nessun proprietari_ [2]. Il canile vero e proprio nasce nel 1954 proprio per contenere i cani accalappiati. Soltanto nel 1991, con il diffondersi del pensiero animalista e protezionista e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie nascono i canili rifugio, dove i cani possono essere messi a disposizione per le adozioni [2]. Se da una parte la nascita dei canili rifugio salva i cani dalla morte certa, dall’altra costringe quelli che non hanno caratteristiche di adottabilità a una vita dietro le sbarre.

Nel documentario si parla anche di “senso di protezione che limita”, tracciando un parallelismo con la lotta antipsichiatrica: spesso proiettiamo su altri soggetti la nostra specifica idea di benessere che potrebbe però non coincidere con la loro. Moss_ dall’impeto di voler “tenere al sicuro” o “salvare” altri soggetti spesso ne limitiamo la libertà senza chiederci se altri tipi di negoziazioni potrebbero essere possibili.

A noi pare che questo discorso possa essere inserito anche nella cornice più ampia di critica alle politiche del decoro e all’approccio securitario. Per questo motivo abbiamo invitato come ospite per l’introduzione del dibattito Lucilla Barchetta, ricercatrice e autrice del libro La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino [3], dedicato alla ricerca etnografica svolta prevalentemente in due parchi torinesi: il parco Michelotti e il parco Stura. L’autrice, accanto a un’ampia riflessione sui progetti di “addomesticamento” del verde urbano, parla di come la regolamentazione e il controllo sullo spazio pubblico e privato limitino le opportunità di muoversi in città soprattutto per i soggetti più vulnerabili. Concetti come quelli di “decoro urbano” e “degrado” sono declinazioni dell’ideologia securitaria diventati pervasivi nella nostra società e vengono usati per mantenere l’ordine sociale, con ripercussioni sui soggetti più marginalizzati.

Il discorso è vasto e sfaccettato, nel caso dei cani liberi va certamente fatta una distinzione tra almeno tre tipi diversi di cani:

  • i cani ferali o semiselvatici, che sono nati liberi e non sono socializzati con la specie umana;
  • i cani che hanno vissuto con l’umano ma si sono successivamente trovati in strada e hanno sviluppato le competenze necessarie per vivere liberi;
  • i cani abbandonati o persi che non hanno, invece, le competenze per vivere liberi [4].

È chiaro che, nelle condizioni attuali in contesti fortemente antropocentrici, questi ultimi cani necessitano di una gestione umana se si vuole evitare la loro morte. Tuttavia, anche nel caso di cani che possono sopravvivere solo a contatto con la specie umana, l’invito è a considerare l’etologia del cane e a lasciare spazio per la sua autonomia, ponendosi in controtendenza rispetto alla cinofilia moderna che insegna al cane a non prendere iniziative e a delegare tutte le scelte all’umano [5].

Per il momento noi non abbiamo risposte certe, ma accogliamo l’invito di No Pet a interrogarci sul nostro rapporto con i cani e a rispettare i soggetti che rivendicano la loro indipendenza dalla specie umana e la loro autonomia di specie.

Fonti:

[1] Marini C. (2021), “Non è tuo figlio”, Menelique, 6:21-23.

[2] Troglodita Tribe, Chiudiamo i canili!, autoproduzione.

[3] Barchetta L. (2021), La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino, Agenzia X, Milano.

[4] Troglodita Tribe, Cari cani di Sicilia, autoproduzione.

[5] Papa V. (2021), “L’autonomia potenziale del cane”, Menelique, 6: 25-27.

Cineforum antispecista – quarto appuntamento

Proiezione del documentario “Il mio amico in fondo al mare” e dibattito

Ospite: Stefania Valenti, naturalista e illustratrice del libro Inky

Per questo quarto appuntamento proponiamo la visione del documentario “Il mio amico in fondo al mare” (2020, diretto da Pippa Ehrlich e James Reed) che racconta l’incontro quotidiano per un anno tra un polpo e un umano nelle acque dell’Oceano Atlantico.

Questo documentario è una narrazione poetica sulla comunicazione interspecie. Raccontando la storia di una singola creatura marina, piuttosto che guardare quell’esemplare di polpo femmina come ad un generico membro di una specie animale, il film sfida, almeno in superficie, l’antropocentrismo mostrandoci gli interessi e la quotidianità di un individuo appartenente ad una specie diversa.

Tuttavia, il polpo, un animale invertebrato che abita profondità marine inaccessibili a molt* di noi, è davvero un simbolo di alterità oppure l’empatia che genera il documentario è possibile solo perché ci rispecchiamo nella sua intelligenza?

È davvero possibile empatizzare con un individuo di un’altra specie se non si abbandona l’idea di una Natura separata dall’Umano? Come porci di fronte alle pratiche di conservazione dominante che pongono l’enfasi su una generica biodiversità piuttosto che sui singoli individui animali?

Ne parleremo con Stefania Valenti, naturalista e illustratrice di Inky, libro per bambin* sulla storia vera di un polpo scappato da un acquario.