Cani liberi, decoro urbano e autonomia di specie

Il 16 ottobre abbiamo proiettato il documentario No Pet. Liberi e randagi (2018) di Davide Majocchi. Il documentario propone una lettura critica della cosiddetta “lotta al randagismo”, mettendo in discussione la visione antropocentrica sempre più diffusa in Occidente secondo cui ogni cane libero è un cane che deve essere accalappiato, sterilizzato e destinato a un’esistenza chiuso in un box del canile o nella gabbia dorata della nostra casa. Quest’ultima è senza dubbio la migliore delle ipotesi, ma sappiamo bene che molti di questi cani non trovano mai un’adozione e sono destinati a trascorrere tutto il resto della loro vita in canile.

Abbiamo deciso di proiettare questo documentario perché spesso, anche all’interno dell’attivismo animalista/antispecista, il cane è presentato come animale che “trattiamo bene”, in opposizione allo sfruttamento degli animali da allevamento. Il documentario ci spinge però a domandarci che cosa vuol dire “trattare bene” i cani.

Partiamo da una premessa: nel mondo sono presenti circa 900 milioni di cani, di cui l’83% è costituito da cani liberi, che gravitano intorno alle comunità umane senza condividere con gli animali umani gli spazi domestici [1]. Dunque, l’idea che i cani stiano bene solo all’interno delle abitazioni umane pare essere un’idea etnocentrica oltre che antropocentrica, limitata al nostro spicchio di mondo. Inoltre, il rapporto che la nostra società ha con i cani è sempre concepito all’interno di un’ottica utilitaristica, in cui il cane ci è utile per qualche motivo: dal tenerci compagnia al fare la guardia, a partecipare a competizioni, al contribuire alla costruzione del nostro status sociale sfoggiando il “cane di razza”, fino a svolgere veri e propri servizi professionali, come per i cani poliziotto, o i cani usati per il salvataggio, o i cani da pastore e da caccia, ma anche i cani usati per la pet therapy. Il rapporto della specie umana con i cani è sempre concepito in ottica di dominio: è sempre l’umano a dover “educare” il cane e a dover decidere per la sua vita limitando, di fatto, al minimo le possibilità di scelta.

L’istituzionalizzazione della lotta al randagismo in Italia inizia tra fine ‘800 e inizio ‘900, quando si fa strada la necessità di riforma della sanità pubblica e i cani liberi vengono individuati come minaccia per la salute pubblica. Precisamente, nel 1914 viene introdotto un articolo all’interno del Regolamento Speciale di Polizia Veterinaria che obbliga la registrazione presso gli uffici comunali di tutti i cani che vivono con un_ uman_ e prescrive l’obbligo di accalappiamento dei cani vaganti, i quali erano destinati alla soppressione o alla concessione a istituti scientifici se non venivano reclamati da nessun proprietari_ [2]. Il canile vero e proprio nasce nel 1954 proprio per contenere i cani accalappiati. Soltanto nel 1991, con il diffondersi del pensiero animalista e protezionista e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie nascono i canili rifugio, dove i cani possono essere messi a disposizione per le adozioni [2]. Se da una parte la nascita dei canili rifugio salva i cani dalla morte certa, dall’altra costringe quelli che non hanno caratteristiche di adottabilità a una vita dietro le sbarre.

Nel documentario si parla anche di “senso di protezione che limita”, tracciando un parallelismo con la lotta antipsichiatrica: spesso proiettiamo su altri soggetti la nostra specifica idea di benessere che potrebbe però non coincidere con la loro. Moss_ dall’impeto di voler “tenere al sicuro” o “salvare” altri soggetti spesso ne limitiamo la libertà senza chiederci se altri tipi di negoziazioni potrebbero essere possibili.

A noi pare che questo discorso possa essere inserito anche nella cornice più ampia di critica alle politiche del decoro e all’approccio securitario. Per questo motivo abbiamo invitato come ospite per l’introduzione del dibattito Lucilla Barchetta, ricercatrice e autrice del libro La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino [3], dedicato alla ricerca etnografica svolta prevalentemente in due parchi torinesi: il parco Michelotti e il parco Stura. L’autrice, accanto a un’ampia riflessione sui progetti di “addomesticamento” del verde urbano, parla di come la regolamentazione e il controllo sullo spazio pubblico e privato limitino le opportunità di muoversi in città soprattutto per i soggetti più vulnerabili. Concetti come quelli di “decoro urbano” e “degrado” sono declinazioni dell’ideologia securitaria diventati pervasivi nella nostra società e vengono usati per mantenere l’ordine sociale, con ripercussioni sui soggetti più marginalizzati.

Il discorso è vasto e sfaccettato, nel caso dei cani liberi va certamente fatta una distinzione tra almeno tre tipi diversi di cani:

  • i cani ferali o semiselvatici, che sono nati liberi e non sono socializzati con la specie umana;
  • i cani che hanno vissuto con l’umano ma si sono successivamente trovati in strada e hanno sviluppato le competenze necessarie per vivere liberi;
  • i cani abbandonati o persi che non hanno, invece, le competenze per vivere liberi [4].

È chiaro che, nelle condizioni attuali in contesti fortemente antropocentrici, questi ultimi cani necessitano di una gestione umana se si vuole evitare la loro morte. Tuttavia, anche nel caso di cani che possono sopravvivere solo a contatto con la specie umana, l’invito è a considerare l’etologia del cane e a lasciare spazio per la sua autonomia, ponendosi in controtendenza rispetto alla cinofilia moderna che insegna al cane a non prendere iniziative e a delegare tutte le scelte all’umano [5].

Per il momento noi non abbiamo risposte certe, ma accogliamo l’invito di No Pet a interrogarci sul nostro rapporto con i cani e a rispettare i soggetti che rivendicano la loro indipendenza dalla specie umana e la loro autonomia di specie.

Fonti:

[1] Marini C. (2021), “Non è tuo figlio”, Menelique, 6:21-23.

[2] Troglodita Tribe, Chiudiamo i canili!, autoproduzione.

[3] Barchetta L. (2021), La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino, Agenzia X, Milano.

[4] Troglodita Tribe, Cari cani di Sicilia, autoproduzione.

[5] Papa V. (2021), “L’autonomia potenziale del cane”, Menelique, 6: 25-27.