CARNE FELICE E AMBIENTALISTI CONTENTI

Il 19 Giugno, in occasione del nostro secondo cineforum, abbiamo proiettato Deforestazione made in Italy, un documentario che porta avanti la tesi che gli allevamenti del futuro siano quelli del passato. Gli interessi degli animali non umani, come al solito, sono invisibili. Di seguito proponiamo la nostra riflessione su un film che, pur essendo ricco di informazioni, possiamo definire un capolavoro di bioviolenza.

***

Tra i lupi mannari e gli unicorni delle storie popolari, tra gli gnomi e le fate delle leggende, l’immaginario folkloristico italiano è abitato da tantissimi miti e leggende. Nessuno però è più radicato nella nostra cultura del mito degli “italiani brava gente”.

Si tratta di un’autorappresentazione falsa (e nazionalista) così cristallizzata nella cultura italiana che ormai non è più esclusiva della storia coloniale in cui è nata, ma assume declinazioni diverse a seconda dell’occasione.

Gli “italiani brava gente” in tempi di guerra erano soldati miti, bonari, tolleranti, gioviali, incapaci di atti crudeli. È un mito che ha resistito agli attacchi della storiografia, che ha documentato come i nostri connazionali fossero invece colonizzatori efferati come tutti gli altri, con le loro armi chimiche e le loro pratiche di madamato.

Dinnanzi ai cambiamenti climatici, il mito degli “italiani brava gente” ritorna. Non è possibile immaginare che anche gli italiani, con la loro cucina, siano responsabili di danni al pianeta. Noi siamo la terra della dieta mediterranea, della pizza, della bresaola, del formaggio. Sembrerebbe impossibile che le eccellenze gastronomiche italiane possano contribuire alla deforestazione. Non sarà forse tutta colpa dellә altrә, degli hamburger americani o delle abitudini culinarie cinesi?

Il documentario Deforestazione made in Italy sembra voler scalfire questo mito collettivo nazionale andando a colpire l’Italia nell’orgoglio: il made in Italy distrugge le foreste tanto quanto i prodotti delle altre economie. Quella dell’autore, tuttavia, è una critica solo parziale. Si colpisce l’Italia nella sua fierezza culinaria per darle la possibilità di rialzarsi, di dimostrare al mondo che la nostra cucina può riabilitarsi ed essere sostenibile senza alterazioni di contenuto.

Si descrive, infatti, un’Italia che vive il paradosso di una grandezza gastronomica legata alla tradizione, al territorio e che può guarire dall’ipocrisia ritornando a una dimensione bucolica, con prodotti locali e a kilometro zero, dove gli allevamenti siano felici ed estensivi e dove la carne sia un prodotto di qualità e non “in quantità”.

È questo un messaggio coerente con tutta l’impostazione del film: gli animali non umani vittime degli allevamenti sono presenti nel documentario, ma come referenti assenti. Sono degli oggetti passivi e inanimati, il cui dramma rimane invisibile per tutta la durata del film.

È in questa assenza che si consuma la rottura tra il movimento antispecista e il movimento ecologista. Se entrambi si intersecano nella loro critica ai modelli di produzione, il secondo non riconosce agli animali non umani lo status di soggetti, ma, tuttalpiù, sono un aggregato variopinto riconducibile alla definizione di biodiversità.

Proprio a questo bivio nasce la bioviolenza, una narrazione nata per rispondere alle criticità etiche ed ecologiche del consumo di carne: una violenza “bio”, green, umana che racconta di una carne felice, di bovini al pascolo, di polli ruspanti, tutto “come una volta”.

Questo ritorno al passato ha però delle note stonate: in epoche preindustriali, gli allevatori avevano con gli animali non umani un rapporto diretto, che era comunque un rapporto di sottomissione e violenza; gli allevamenti intensivi hanno disabituato il consumatore alla violenza sugli animali, allontanando i mattatoi e gli allevamenti, ma allo stesso tempo hanno esacerbato il rapporto di violenza trasformando gli animali in macchine da produzione. Queste due condizioni – la non familiarità con la violenza e il fatto che essa stessa fosse diventata estremamente brutale – hanno fatto mettere in dubbio la moralità del trattamento riservato agli animali allevati. È per coprire questa crepa nel muro dello sfruttamento che si è proposto un ritorno al passato dove il rapporto con gli animali non umani viene edulcorato con la retorica del benessere animale.

Per certi versi, siamo di fronte a “una toppa peggiore del buco”.

Se si riconoscono gli animali come soggetti che non devono soffrire, com’è possibile accettare che possano invece essere uccisi?

Se, come sostiene Jared Piazza, mangiare carne è giustificato dalle 4N, ovvero dalla credenza che mangiare carne sia natural, normal, necessary e nice (naturale, normale, necessario e buono), come si può difendere un sistema di allevamento che renderebbe un alimento “necessario” un prodotto di nicchia, il cui sovrapprezzo escluderebbe fasce della popolazione meno abbienti o che, se volesse includere una fascia maggiore della popolazione, richiederebbe porzioni di terra tali da renderlo immediatamente insostenibile?

Non sono queste, tuttavia, le uniche criticità alla carne felice e sostenibile. Alla bioviolenza della prima ora, fatta di campagne bucoliche e richiami pastorali, ne è seguita poco dopo un’altra “2.0” che ha scatenato nuove forme di accumulazione e ha talvolta rinnegato il passato idilliaco per immaginare un futuro di animali tecnologici con corpi da piegare alle esigenze climatiche o (pseudo)etiche.

Questa bioviolenza 2.0 assume diverse forme. Da un lato si assiste alla creazione di nuovi mercati e nuovi prodotti: il latte di cammella, per esempio, potrebbe essere il latte dei cambiamenti climatici in quanto prodotto da un animale in grado di resistere alla siccità e a condizioni climatiche avverse. L’80% dei cammelli mondiali si trovano in Somalia, Kenya ed Etiopia, quindi possiamo anche immaginare uno scenario geopolitico in cui l’Africa rimane nel suo ruolo di esportatrice di materie prime e produttrice di cibo.

La bioviolenza però non apre le porte solo a nuovi prodotti, ma a nuove forme di accumulazione capitalistica, impensabili poco tempo fa. Ad Aprile 2021, dopo la commercializzazione avvenuta due anni di un integratore alimentare per bovini – il Mootral – che avrebbe ridotto le loro emissioni, sono stati lanciati sul mercato i crediti di carbonio provenienti dalla riduzione delle emissioni di metano enterico di questi animali. In altre parole, i rutti (evitati) delle mucche potranno essere acquistati per ridurre le proprie emissioni (o da grandi aziende), allo stesso modo in cui da anni acquistando un fornello solare per una comunità in Uganda o piantando un albero in Mozambico si può diventare “carbon neutral”.

Nasce quindi una doppia opportunità di guadagno per gli allevatori: non più soltanto i corpi degli animali, ma anche la vendita di crediti di carbonio.

Un’altra opportunità di guadagno proviene dal biogas: negli Stati Uniti stanno prendendo piede costosissimi impianti di digestione anaerobica di liquami e letami prodotti dai bovini che vengono trasformati in biogas per il trasporto o per fornire elettricità. Sono impianti che costano milioni di euro, finanziati soprattutto con soldi pubblici, che vengono raccontati con parole green quali “valorizzazione del refluo zootecnico” o sono narrati come il contributo degli allevamenti alla lotta contro i cambiamenti climatici.

Il paradosso è enorme: viene venduta come energia pulita un’energia che di fatto pulita non è, in quanto, tolto l’impatto del letame, gli altri fattori climalteranti legati agli allevamenti rimangono immutati.

Infine, per concludere la rassegna sui nuovi mercati legati al metano prodotto (o non prodotto) dalle mucche, cinque anni fa l’Istituto Nazionale di Tecnologia Agricola di Buenos Aires ha trasformato le mucche stesse in fonti di biocarburante. Collegando un sistema di tubi all’interno dello stomaco della mucca con un sacchetto fissato sulla schiena, è possibile raccogliere il metano prodotto dall’animale nel corso della giornata. Una volta estratto, il gas viene depurato e inserito in bombole che ne permettono la fruizione.

Questo zainetto non è di certo l’unico accessorio invasivo inventato per ridurre le emissioni. La pandemia deve probabilmente aver ispirato quegli scienziati che hanno pensato di creare delle mascherine per le mucche che intrappolano il metano prodotto attraverso rutti.

L’unico limite della bioviolenza è la fantasia. Non si creano solo tante nuove forme di accumulazione e mercificazione quante è possibile pensarne, ma, addirittura, si progettano animali affinché soddisfino particolari requisiti etici: mucche senza corna affinché non debbano essere sottoposte alla procedura dolorosa di decornazione (pratica eseguita per prevenire i danni che queste potrebbero provocare alle loro compagne di sventura negli spazi angusti degli allevamenti intensivi e soprattutto per disarmarle del loro unico strumento di difesa contro gli allevatori); maiali con testicoli che non si sviluppano per evitare che questi debbano essere castrati senza anestesia (pratica eseguita perché i maiali castrati hanno una carne qualitativamente superiore per il mercato); infine, ritorna ciclicamente l’idea di causare una disabilità agli animali per migliorare il loro benessere, come per esempio creare galline cieche affinché, sotto stress, becchino meno efficacemente le loro compagne (il cannibalismo è una questione ordinaria negli allevamenti intensivi) o, addirittura, animali incapaci di soffrire per risolvere rapidamente la questione se sia etico fare del male ad un animale in grado di provare dolore.

Anche da un punto di vista ambientale, l’unico limite della bioviolenza è l’immaginazione: polli senza piume affinché si possa risparmiare acqua nell’operazione di spiumaggio; mucche con particolari capacità di termoregolazione corporea affinché non patiscano gli stress climatici; mucche nane che con le loro ridotte dimensioni si adattino a contesti di autoproduzione e, soprattutto, consumino meno risorse in confronto alle loro sorelle più grandi, producendo proporzionalmente più latte e carne.

Semplificando, ci sono due tipi di strategie: da un lato la bioviolenza bucolica, quella del prodotto di nicchia, che guarda al passato, che si rivolge al consumatore medio-alto in grado di pagare un prezzo premium; dall’altro la bioviolenza 2.0, quella che guarda al futuro e che con sincero cinismo ammette che le gabbie più grandi e i pascoli verdi non sono competitivi commercialmente su larga scala e che un intervento diretto sulla genetica permetterebbe di ottimizzare i costi e i profitti rendendo contentә ecologistә e pseudoanimalistә.

Non spenderemo ulteriori parole per evidenziare il paradosso di cercare di garantire il benessere di un animale che si riconosce in grado di soffrire, ma che si sceglie di far morire prematuramente.

Vogliamo lanciare in quest’occasione, invece, un’ultima riflessione sulla bioviolenza ecologista. Il ritorno agli allevamenti “come una volta”, la manipolazione di corpi animali per renderli adatti ai cambiamenti climatici, la trasformazione di mucche in fonti di energia renderanno il pianeta più green?

La risposta dipende da quale progetto si vuole realizzare.

La bioviolenza è infatti solo uno dei tanti vestiti nuovi dell’imperatore capitalista. Sono stati cuciti dagli stessi abili sarti dell’economia neoliberale che hanno tessuto le lodi della green economy quando ormai era evidente che il nostro modello di sviluppo era devastante. Il meccanismo è sempre lo stesso: il gattopardiano “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

La bioviolenza è questo: grandi cambiamenti per mantenere intaccati il profitto e i rapporti di dominio sugli animali, così come la “green economy” e lo “sviluppo sostenibile” sono rivoluzioni di facciata (passive, direbbe Gramsci) per mantenere saldi la speculazione sulla natura e i rapporti di gerarchia con paesi extra-europei, (Africa Sub-Sahariana, in primis).

Pensiamo che il movimento ecologista e quello antispecista debbano incontrarsi sull’asse della lotta al capitalismo, l’ideologia responsabile della crisi climatica.

Per noi non è immaginabile una fine del capitalismo senza che sia demolita anche l’idea dell’umano “figlio di Dio”, signore e padrone del mondo, senza che venga superata la separazione dell’essere umano dagli altri esseri viventi, senza che sia messo a tacere per sempre il delirio umano di onnipotenza.

La costruzione di gerarchie inter-specie e intra-specie è fondamentale per la riproduzione del capitalismo e, conseguentemente, è una causa fondamentale della crisi climatica. Un movimento ecologista che ignori le istanze antispeciste e che rimanga arenato in una nostalgia verso il passato non rischia solo di essere miope, ma rischia soprattutto di essere totalmente vuoto.

Fonti:

Marco Maurizi, 2011, Antispecismo, allevamento “tradizionale” e auto-produzione,

http://bioviolenza.blogspot.com/2011/03/antispecismo-allevamento-tradizionale-e.html

Jared Piazza, 2015, Rationalizing meat consumption. The 4Ns, https://www.researchgate.net/publication/274901470_Rationalizing_meat_consumption_The_4Ns

Raisa Scriabine, Dairy Alternatives: Rethinking Milk In California and Kenya

https://www.kcet.org/shows/earth-focus/clip/dairy-alternatives-converting-cattle-methane-into-renewable-energy

Elisa Valenti, 2019, Senza piume, senza corna, senza senso, http://bioviolenza.blogspot.com/2019/06/senza-piume-senza-corna-senza-senso-le.html

Cow burps are being used to offset our carbon emissions, www.euronews.com/green/2021/04/22/cow-burps-are-being-used-to-offset-our-carbon-emissions

Cargill Backs Cow Masks to Trap Methane Burps

www.bloomberg.com/news/articles/2021-06-01/wearable-technology-to-filter-cow-methane-burps

CINEFORUM ANTISPECISTA – SECONDO APPUNTAMENTO

Proiezione del documentario “Deforestazione made in Italy” e dibattito.

Per questo secondo appuntamento proponiamo la visione del documentario “Deforestazione made in Italy” (2019, prodotto e diretto da Francesco De Augustinis) che racconta come le eccellenze alimentari e artigianali italiane siano legate a doppio filo con la deforestazione dell’Amazzonia.

Con questo documentario, che offre una prospettiva inedita sulle responsabilità nazionali dei cambiamenti climatici, lanceremo alcune riflessioni sulle narrazioni dominanti in campo ecologico.

Il dibattito accesissimo sugli allevamenti intensivi, che accomuna i movimenti ecologisti e antispecisti, lascia nell’ombra le prime vittime di questo sfruttamento, ma soprattutto apre le porte ad un capitalismo verde fatto di allevamenti verticali, corpi animali manipolati per inquinare meno o a paesaggi bucolici dove gli animali condannati muoiono per un prezzo premium.

Un ambientalismo specista si traduce in #bioviolenza?
Quali sono le conseguenze di pratiche di attivismo (antispeciste ed ecologiste) che mirano ai consumi individuali invece di rivolgersi a problemi sistemici?
È corretto parlare di Antropocene quando i cambiamenti climatici sono opera di uno specifico tipo di società ed economia?

Ne parleremo insieme il 19!

VIRUNGA: QUANDO IL MILITARISMO SI TINGE DI VERDE

Il 29 Maggio abbiamo organizzato il nostro primo cineforum. Di seguito la nostra restituzione della lettura critica che abbiamo proposto.

***

Guerra, bracconaggio e aziende minerarie. Dinnanzi a queste tre grandi minacce che incombono su Virunga, parco nazionale nella provincia del Kivu Nord in Congo, l’omonimo documentario Virunga racconta l’eroismo dei rangers del parco per difendere la riserva naturale e i gorilla di montagna.

Il film ha indubbiamente dei meriti: immagini magnifiche si alternano a testimonianze riprese con telecamere nascoste che rivelano come l’immagine dell’Africa selvaggia e infantilizzata dei colonizzatori europei continui a vivere nella mente dei nuovi poteri coloniali capitalisti a distanza di più di 50 anni dall’indipendenza (il film è del 2014). L’indignazione che genera il razzismo dei dipendenti della compagnia britannica SOCO e la possibilità stessa che quest’ultima possa fare esplorazioni petrolifere in un parco naturale si unisce al senso di urgenza causato dalla presenza di gruppi armati.

Tuttavia, il film lascia nell’ombra alcune questioni mastodontiche preferendo una narrazione “buoni-cattivi” holliwoodiana.

Quello che può sembrare un episodio marginale, all’inizio del film, ovvero il fermo di un bracconiere e l’incendio al suo accampamento è in realtà una finestra su due fenomeni estremamente diffusi in molti paesi africani: il militarismo verde e la marginalizzazione e l’espropriazione delle popolazioni locali.

Il modello di conservazione (occidentale) proposto per i paesi africani (e per l’India, la Thailandia e numerosi altri paesi) si basa sulla conversione delle foreste in parchi nazionali, che porta alla criminalizzazione dei popoli indigeni, ai quali non sono più consentite attività di caccia, raccolta e agricoltura all’interno del parco. Queste persone, di colpo, acquisiscono l’etichetta di “bracconiere”.

Come racconta l’organizzazione internazionale per i diritti dei popoli indigeni Survival in tantissime delle sue inchieste, le attività di sussistenza e il bracconaggio commerciale sono combattute come se fossero lo stesso fenomeno, la cui unica soluzione risiede nell’armare pesantemente i rangers.

È questa una strategia ampiamente adottata in Africa, la cui esistenza è arrivata clamorosamente sotto gli occhi occidentali quando nel 2016 la stessa Survival accusò presso l’OECD il WWF di violazione dei diritti umani. Le squadre antibracconaggio sostenute e finanziate dal WWF avrebbero infatti perpetrato pestaggi e torture ai danni dei popoli tribali Baka in Camerun.

In merito a Virunga, il giornalista congolese Eric Mwamba ha descritto i rangers come “mitragliatrici nella nebbia”, mentre la ricercatrice olandese Esther Marijnen, nei suoi studi sul parco, riporta come per chi vive nei pressi, i rangers non siano eroi ma l’ennesimo gruppo armato che minaccia la sopravvivenza della popolazione. Accampamenti devastati, utensili e reti da pesca distrutti, arresti e percosse sono i frutti, poco cinematografici, che la popolazione locale raccoglie dalla convivenza con i rangers.

Alla luce di queste considerazioni non si può non notare come nel film vi sia la totale assenza del punto di vista della popolazione locale civile. I rangers del parco Rodrigue e André, il principe belga e direttore del parco Emmanuel de Merode e la giornalista francese Mélanie Gouby sono le uniche voci narranti.

L’invisibilità della popolazione civile avviene tuttavia su più fronti. Come documenta Esther Marijnen, il film nel 2015 poteva essere visto in più di 50 paesi e il Congo non era tra questi. La pagina Facebook del parco, che ricordiamo essere situato in un paese che parla francese, kikongo, lingala, swahili e tshiluba è in inglese e fino al 2015 anche il sito era unicamente in lingua inglese. Riassumendo con le parole dello scienziato congolese Paul Katembo Vikanza il parco sarebbe stato creato dal muzungu (bianco) per il muzungu.

Inoltre, la spettacolarizzazione della violenza e la romanticizzazione della figura dei rangers sono vantaggiose a fini economici. Il film si apre con il funerale di un ranger e si conclude con l’invito ad unirsi alla lotta per Virunga. A chi approda sul sito del parco nazionale, nella sezione delle donazioni, si chiede di non rendere vano il sacrificio dei rangers: con 35$ si supporta un ranger per un giorno, con 50$ si supportano la vedova e i figli di un ranger caduto e, solo come terza opzione, con 150$ si supporta un gorilla per due settimane. Degno di nota è il fatto che tra le opzioni di donazione non vengano menzionati contributi per programmi di supporto alla popolazione locale che renderebbero sicuramente meno gravoso e pericoloso il lavoro dei rangers.

Non è dato sapere se l’uomo ritratto all’inizio del film fosse un cacciatore di sussistenza o un trafficante commerciale (anche se la presenza di una pentola e le successive dichiarazioni dei rangers sul fatto che la maggior parte del bracconaggio è “tradizionale” potrebbero far propendere per la prima opzione). Di sicuro però bisogna riflettere sul fatto che la caccia di sussistenza e il bracconaggio non differiscono nella sostanza, ma solo nella forma. Il cacciatore diventa bracconiere da un giorno all’altro se una foresta improvvisamente acquisisce uno stato speciale. Un fatto che diventa paradossale se si pensa che, se da un lato si si negano attività di sussistenza nei parchi naturali, dall’altro lato molti paesi africani (Sud Africa, Botswana, Namibia, ecc.) consentono la caccia, riservandola a ricchissimi bianchi occidentali, di quei mammiferi che sono protetti. Questi cacciatori non sono bracconieri, ma vengono nobilitati come “sportivi”. La moralità della caccia sportiva è inoltre riconosciuta in quanto i cacciatori, con le loro quote economiche per cacciare, contribuiscono al benessere economico delle istituzioni che organizzano queste forme di turismo e, paradossalmente, si sostiene che partecipino di conseguenza al benessere generale di tutti gli altri animali non ammazzati che beneficiano quindi di maggiori cure, grazie alla maggiore disponibilità economica.

Se non è dato sapere chi fosse l’uomo ritratto all’inizio del film e se comunque la divisione buoni-cattivi del film ignora volutamente le difficoltà che la popolazione congolese ha affrontato senza interruzioni dalla colonizzazione alla guerra civile, passando per una delle dittature peggiori della storia africana, è invece innegabile come la lotta armata al bracconaggio cerchi di rispondere al fenomeno immediato senza andare a colpire le cause più profonde per le quali esso avviene.

Il dubbio è che ciò che avviene a Virunga, così come gran parte delle strategie conservazioniste moderne, sia il prodotto di un razzismo ecologista. La domanda di prodotti esotici (avorio, corna di rinoceronte, carne di gorilla), che avviene soprattutto in paesi extra-africani ed è alla radice dell’estinzione di tante specie, è combattuta globalmente e politicamente con la stessa aggressività con la quale si fronteggia la lotta al bracconaggio in Africa? L’aumento del bracconaggio, del resto, è sicuramente più correlato all’aumento della ricchezza in Asia piuttosto che ad altri fattori sociali in Africa. Inoltre, secondo il CITES, l’Italia è il terzo paese esportatore di avorio legale (sic!), ma non vi è nessuna criminalizzazione del “libero commercio italiano” (e un ex diplomatico italiano è stato arrestato ad Aprile in Uganda per il possesso di 5 kg i avorio).

Virunga e gli altri parchi nazionali africani dove vigono policies di sparare a vista ai bracconieri e dove si sceglie consapevolmente di minare la sussistenza della popolazione locale per proteggere gli abitanti non umani che vi abitano sono rari teatri globali in cui la vita non umana viene anteposta a quella umana.
Da antispecistɜ, non troviamo problematico che si riconosca il diritto di un gorilla a vivere nella natura senza essere minacciato. Tuttavia, ciò che invece è problematico è che, in un mondo specista, la vita di un gorilla valga più di quella di un essere umano se, e solo se, l’essere umano in questione sia nero.

Il razzismo ecologista si fonderebbe quindi sull’idea che l’Africa (o in altri casi i paesi orientali) sia una terra selvaggia, la terra della natura. La protezione degli animali che vi abitano sarebbe motivata da questi sentimenti uniti ad un gusto per l’esotico. Una tesi, questa, che sembra avvalorata dal fatto che in occidente, quando gli interessi della natura confliggono con quelli della popolazione, è sempre la prima a soccombere e la recente storia degli orsi del Casteller – orsi che sono stati ingabbiati per incidenti di lievissima entità – confermerebbe questa teoria.

Trasponendo infine il militarismo verde al futuro più immediato, all’orizzonte vi è la COP15 che si terrà a Kunming, in Cina, ad ottobre. La proposta che avanzano molti governi occidentali è di proteggere il 30% delle aree del pianeta entro il 2030: un intento nobile se la protezione non implicasse i modelli di conservazioni neocoloniali già illustrati in precedenza. Inoltre, va di nuovo fatto notare, la crisi climatica e la perdita di diversità non avvengono a causa di mancanza di protezione di alcune aree, ma a causa di precisi modelli economici che una proposta come quella del “30% entro il 2030” ignora volutamente.

Fonti:

– E Marijnen, J Verweijen, Selling green militarization: the discursive (re) production of militarized conservation in the Virunga National Park, Democratic Republic of the Congo
– R Duffy, F Massé, E Smidt, E Marijnen, B Büscher, J Verweijen, Why we must question the militarisation of conservation
– J Verweijen, E Marijnen, The counterinsurgency/conservation nexus: guerrilla livelihoods and the dynamics of conflict and violence in the Virunga National Park, Democratic Republic of the Congo
– E Marijnen, Public authority and conservation in areas of armed conflict: Virunga National Park as a ‘state within a state’in eastern Congo
– ME Baaz, D Gondola, E Marijnen, Virunga’s White Saviour Complex: How the Film Distorts the Politics and People of Congo
– Eric Mwamba, Machineguns in the mist
– Il sito dell’ONG Survival per informazioni generali e globali sul militarismo verde