Supporto per Jennifer, donna trans e sex worker condannata

Comunicato in seguito al processo di Jennifer

Pubblicato il 11 luglio 2021 | Aggiornato il 21 luglio

Jennifer è una donna trans incarcerata nella prigione di Seysses dal giugno 2020, per aver accoltellato il suo stupratore per strada. Il suo processo si è svolto al Tribunal de Grande Instance di Tolosa il 10 giugno 2021. È stata condannata a 5 anni di reclusione, di cui 3 in carcere, e
condannata a pagare quasi 10.000 euro di risarcimento. Il messaggio della corte è chiaro: non è così grave se vieni violentata, l’importante è che tu non reagisca.

Questo comunicato fa seguito al processo di Jennifer che si è tenuto al Tribunal de Grande Instance di Tolosa il 10 giugno 2021.
Per coloro che non conoscono la sua situazione: Jennifer è una donna trans che è incarcerata nella prigione di Seysses dal giugno 2020. Per 9 mesi è rimasta in isolamento nella prigione maschile, per il solo motivo della sua identità trans. Finora, come gruppo di supporto, avevamo scelto di comunicare solo riguardo alle sue condizioni di detenzione. L’accesso alle sale di visita era molto complicato per i suoi parenti, così come l’accesso ai prodotti della prigione, e sta ancora aspettando un lettore DVD ordinato in ottobre. La nostra priorità è stata quindi – per evitare ripercussioni durante la sua incarcerazione o il processo – di mantenere il legame con lei e di attivare tutte le leve possibili per rendere la sua vita quotidiana più dignitosa. In seguito al suo cambiamento di stato
civile, è stata trasferita nel carcere femminile, e noi continuiamo a mobilitarci per sostenerla a livello materiale ed emotivo.

Oggi, vogliamo rendere pubblica la nostra posizione sulla sostanza del caso e sul suo trattamento giuridico. Jennifer è stata imprigionata dopo aver accoltellato il suo stupratore per strada. È stata condannata a 5 anni di reclusione, di cui 3 in carcere, e condannata a pagare quasi 10.000 euro di risarcimento. Il messaggio della corte è chiaro: non è così grave se vieni violentata, l’importante è che tu non reagisca.

Nel giugno 2020, un uomo stupra Jennifer. Lei fa lavoro sessuale, lui le chiede una prestazione, lei rifiuta. Lui la picchia, la minaccia, la stupra. Le ruba le sue cose, i suoi soldi, il suo telefono.
Qualche giorno dopo, lei lo riconosce per strada. Lei grida “è lui che mi ha violentato” e ne segue una lotta a colpi di coltello, alla fine della quale l’uomo esce ferito e a rischio di vita. Mentre l’aggressore sostiene che Jennifer lo ha attaccato per soldi, i testimoni confermano la versione di
Jennifer. Infatti, sia il telefono di Jennifer che quello dell’aggressore sono stati geolocalizzati nella stessa posizione: l’indirizzo dell’aggressore. “Inquietante”, ha detto il presidente. I magistrati erano d’accordo: non siamo qui per discutere dello stupro. Eppure questo è stato il punto di partenza di ciò che l’ha portata in tribunale quel giorno. I magistrati non erano lì per discutere dello stupro, ma ne sappiamo tutto fino alle ragioni del vestito che Jennifer indossava quella sera.
Il giudice ha sottolineato che Jennifer non si è presentata a fare denuncia alla stazione di polizia.
Cosa poteva aspettarsi da una denuncia, tra l’altro? I suoi avvocati hanno spiegato che Jennifer aveva cercato di presentare denunce diverse volte nel corso degli anni. Citano un amico: “Ci sono stati almeno dieci attacchi all’anno nel corso di 15 anni. Alla stazione di polizia ci insultano, ci dicono che “i trans sono fuori”. Jennifer non ha mai avuto accesso alla giustizia e al riconoscimento.
Inutile dire che nessuna denuncia è mai stata presa in carico. Jennifer è una lavoratrice del sesso trans che non è mai stata presa sul serio dalla polizia o dai tribunali per le violenza che subisce. Ma i magistrati hanno convenuto che non era quello il luogo per parlare di stupro, durante il processo di una donna che ha attaccato il suo stupratore.

Come non fare il collegamento con i casi di Kessy, una giovane donna condannata a 12 anni di prigione per aver colpito uno stalker, causandone involontariamente la morte, e Valerie, condannata per aver ucciso il patrigno/marito dopo anni di violenza sessuale.

La posizione della magistratura è chiara: criminalizzare le donne che si difendono, quando la loro protezione e il risarcimento del danno subito non sono mai stati assicurati; la loro rabbia non è accettabile, la loro violenza non è accettabile, la loro autodifesa non è accettabile, la loro vendetta non è accettabile. Lo stupro di Jennifer non era il problema. Eppure lo stupro è un crimine, se c’è bisogno di ricordarlo.

Secondo il rapporto psichiatrico di Jennifer, lei è socialmente pericolosa e incapace di gestire la propria rabbia senza agire. Questa perizia psichiatrica è in linea con la classica retorica transmisogina: le donne trans sono in realtà uomini travestiti da donne, e come tali sono impostori
pericolosi e violenti. Durante tutto il processo, i magistrati non hanno perso una sola occasione per ricondurre Jennifer al suo sesso assegnato alla nascita, per farne la colpevole ideale, pericolosa e incontrollabile. Poco importa che il punto di partenza di questa storia sia uno stupro, non è il suo stupratore ad essere pericoloso, né tutti gli autori delle numerose aggressioni sessuali che ha subito prima di questa. Secondo la perizia psichiatrica e il tribunale, è Jennifer ad essere pericolosa.
Eppure, nelle sole quattro ore del processo, non ha reagito al disprezzo, alla violenza e alla disumanizzazione che le sono state inflitte. Queste includevano la volgare transfobia di menzionare il suo nome assegnato alla nascita, di usare un vocabolario più che inappropriato, di ricordare che “all’epoca dei fatti [era] un uomo”, di sbagliare i pronomi in maniera ripetuta, e di riportarla costantemente al fatto che non sarebbe una vera donna. Infatti, quando un testimone ha raccontato di aver visto una donna a terra, il presidente della sessione ha riformulato aggiungendo: “pensavi che fosse una donna”. Il testimone ha ripetuto: “Ho visto una donna a terra”.

Dov’è la considerazione di tutta questa violenza nel suo giudizio? E dov’è la considerazione di tutte le violenze che ha subito nella sua vita? Quale considerazione viene data all’estrema violenza subita da donne come Jennifer, Kessy, Valerie durante la loro vita? Quale considerazione viene data all’estrema violenza subita dalle lavoratrici del sesso trans?

Non si è parlato di stupro quel giorno, eppure se Jennifer fosse stata ascoltata, sostenuta e protetta, saremmo qui?

È stata quindi condannata a 5 anni, di cui 3 in carcere.

Facciamo appello alla vostra solidarietà. Raccontiamo la sua storia.

Trasmettiamo questo testo.

Scriviamole. Mandiamole dei soldi.

Contatto: solidaritejennifer@riseup.net
Donazioni: https://www.paypal.com/pools/c/8tsUqYi4c2

CINEFORUM ANTISPECISTA – TERZO APPUNTAMENTO

Proiezione del documentario “No Pet – Liberi e randagi” e dibattito.
Ospiti:
Davide Majocchi
, regista del film e fondatore della casa famiglia per animali in difficoltà Lunacorre.
Lucilla Barchetta, ricercatrice e autrice del libro La rivolta del verde. Nature e rovine a Torino.

Dopo la pausa estiva riprendiamo gli appuntamenti con cineforum e dibattito proiettando questo documentario che ci interroga sul nostro rapporto con i cani e, a livello più generale, sul nostro rapporto con la natura che sfugge al controllo antropocentrico.

Il documentario propone una visione critica della lotta al randagismo. L’abbiamo scelto perché vogliamo chiederci insieme: davvero l’idea che ogni cane libero debba essere accalappiato, sterilizzato e confinato a un’esistenza chiuso in un box del canile o nella gabbia dorata della nostra casa è un’idea mossa dall’amore per i cani?

Insieme a Davide Majocchi, regista del documentario e fondatore di Lunacorre, abbiamo invitato a discuterne anche Lucilla Barchetta perché c’interessa allargare il nostro sguardo mettendo in discussione il concetto di decoro urbano, chiedendoci di che cosa parliamo quando parliamo di “luoghi abbandonati” e aprendoci a una discussione politica più ampia sulla vitalità (animale umana e non umana e vegetale) che vive ai margini.

Nel nostro banchetto troverete anche alcune copie del libro di Lucilla e dei libelli di Troglodita Tribe (di cui fa parte una delle persone intervistate all’interno del documentario)

Contro il Green Pass, contro il Green Washing

Nella giornata di sabato 18 settembre un gruppo di attivistə antispecistə ha deciso di fare una gita a Cheese, l’evento di Slow Food dedicato al formaggio che si svolge ogni due anni a Bra. 
Lo slogan “Considera gli animali”, insieme al costante proclama di una presunta attenzione per il “benessere animale”, sono il leitmotiv che ci accompagna lungo distese di stand, “laboratori del gusto” e conferenze che si diramano lungo tutto il centro di Bra. L’alternanza senza soluzione di continuità di percorsi didattici dedicati allo sviluppo di una non meglio identificata “consapevolezza animale” e di un ancor meno chiaro “ritorno alla natura”, di fumi delle bancherelle che vendono arrosticini e carne alla griglia lasciano l’impressione che Cheese, nonostante i goffi tentativi di nobilitarsi, non rimanga altro che una banale sagra di paese.
Per fortuna, questo idillio fatto di consumismo elitario e non, di idealizzazioni bucoliche e di green washing sfacciato non è sfuggito a noi attivistə antispecistə, che, contrariamente a Slow Food, sappiamo bene che liberazione animale e lotta al cambiamento climatico sono incompatibili con ogni forma di allevamento, e che gli animali non umani non sono prodotti, merci da svendere a poco prezzo a una fiera di paese, ma soggetti che se potessero “parlare e riunirsi in assemblea”, come si spinge ad interpretare Slow Food, non vorrebbero essere certo “carne felice” ma individui liberi.
Evidentemente queste riflessioni devono aver turbato il clima di festa e leggerezza della giornata, perché nel giro di breve tempo, le nostre rimostranze, esposte ad alta voce, senza megafono, e attraverso la distribuzione di volantini, hanno attirato diversi esponenti delle forze dell’ordine. Non ci è potuto sfuggire come alla nervosa pressione di diversi organizzatori dell’evento, riunitisi intorno a noi, sia finalmente seguito l’intervento di forze dell’ordine e digos, che ci hanno interrottə e identificatə. 
Uno scenario più che noto eccetto che, oltre ai documenti, ci è stato chiesto di mostrare anche il Green Pass.
Per rispettare la privacy di tuttə, scegliamo di non raccontare se vi siano state conseguenze legali sulle singole persone presenti.
Ci è stato chiaro fin da subito l’uso strumentale e selettivo del Green Pass nei confronti di noi attivistə, dal momento che non era mai stato richiesto né all’ingresso né all’interno dello spazio della fiera, pena l’interruzione di un rituale di consumismo collettivo e dei relativi profitti.
La speranza era ovviamente quella di poter allontanare quantə più attivistə possibilə da uno spazio di lotta e conflitto, tramite l’esercizio di un potere arbitrario che rinforza e si somma a forme repressive più “tradizionali”.
Merita uno sguardo la giustificazione addotta dalle forze dell’ordine per la richiesta del Green pass: infatti in occasione di Cheese l’intero centro storico è stato adibito ad “area fieristica” cui sarebbe legato l’obbligo di possesso di Green Pass: un processo che si configura come una forma di privatizzazione dello spazio pubblico, in cui il confine tra cittadino e consumatore, già flebile, diventa ormai quasi impercettibile. Ma è proprio sulla porosità e vaghezza dei confini, che possono allargarsi e restringersi a piacimento a seconda delle necessità del capitale e delle parti coinvolte, che si gioca il potere di uno strumento in grado di costruire potenzialmente all’infinito nuove frontiere interne ed esterne.

E così è possibile affermare che, anche se per pochi giorni, Bra non ospita più Cheese, ma è Cheese.

Come Transelvatikə e Assemblea Antispecista, denunciamo il pericolo di rimanere impantanatə nella melma di un nuovo securitarismo con la stessa forza con cui ci opponiamo alla reclusione dellə nostrə compagnə non umanə negli allevamenti “felici”.

Contro ogni frontiera, di specie, di razza e di genere, NO GREEN PASS, NO GREEN WASHING